Pensate a quante informazioni vengano divulgate nei social network o su Twitter, pensate a come, una volta messe in rete, rimangano disponibili per chissà quanto tempo.
Tempo fa incontrai un conoscente che non vedevo da anni: dal momento che sono una persona curiosa (non invadente, curiosa) per prepararmi all'incontro, mi andai a guardare il suo blog, il suo profilo su Linkedin, controllai cosa aveva scritto su Twitter, giusto per farmi un'idea e trovare argomenti di interesse comune di cui discutere nel nostro incontro.
Al tavolo del ristorante accennai ai suoi viaggi e alle foto che aveva scattato, mi dissi d'accordo su alcuni pareri che aveva scritto nel suo blog e gli dissi che non mi aveva mai parlato della sua passione per l'acquariologia.
Sebbene tentasse di celare il suo imbarazzo per i primi due argomenti, quando entrò in scena l'acquariologia il mio conoscente ebbe un moto di sincero stupore: "Ah, e chi te ne ha parlato?"
"Parlato? Ma nessuno." gli risposi. "E' bastato fare una ricerca con Google sul tuo nome e trovare qualche tuo intervento in un forum di acquariofili, proprio in mezzo tra un pesce rosso e un pesce pagliaccio."
Credo che molti di noi, gratificati dal controllo sulla pubblicazione di blog, twits, forum eccetera, non pongono la stessa attenzione sulla mancanza di controllo di lungo termine e nel percepire le conseguenze sulla pubblica divulgazione di informazioni che li riguardano.
Al di là dell'esempio sopra, piuttosto semplificatorio e in cui non veniva toccato alcun argomento estremamente personale, noto spesso, sia in altri sia in me stesso, reazioni contraddittorie di fronte alla percezione che viene violato il nostro diritto di decidere quale informazione possa essere divulgata e come. E lo facciamo indipendentemente dal grado di privacy oggettiva di tale informazione.
Molti utenti di social network aggiornano i propri profili personali, rivelando informazioni private o addirittura imbarazzanti: ma come reagirebbero se tali informazioni venissero riprese e divulgate da altre fonti?
Un esempio sopra tutti: nel 2006 il noto sito di social network Facebook introdusse News Feed, un nuovo servizio con lo scopo di facilitare l'aggiornamento degli status personali pubblicando sulla home page dell'utente le ultime attività sue e dei suoi amici: eventuali cambiamenti di stato, nuove immagini o video, nuove amicizie e via discorrendo. Tutte informazioni peraltro già presenti e disponibili a tutti gli utenti di Facebook.
Gli utenti del social network reagirono negativamente a questa nuova caratteristica chiedendone la rimozione e mostrando implicitamente che la tipologia di diffusione delle informazioni mediante la ricerca era più tollerata della divulgazione di tipo push, ovvero senza che venisse richiesta.
E' altresì vero che è più impegnativo reperire un'informazione andandosela a cercare piuttosto che aspettare che la stessa venga divulgata in broadcast.
Ma il punto cruciale è la differente percezione tra la pubblicazione di un'informazione e il suo eventuale utilizzo.
Sebbene alcuni social network comunichino all'utente che l'informazione pubblicata online potrà essere fruita da sconosciuti, esiste un vero gap tra l'immediatezza della percezione dell'informazione messa online e l'eventuale fruizione successiva da parte di chissachi.
Dal momento che abbiamo il controllo sull'informazione pubblicata, diamo meno importanza al controllo del suo successivo utilizzo.
Il giugno scorso, al Ninth Workshop on the Economics of Information Security (WEIS 2010) tenutosi ad Harvard, é stata presentata una ricerca condotta da Alessandro Acquisti e George Loewenstein della Carnegie Mellon University su un campione costituito da studenti universitari statunitensi, un insieme di soggetti, quindi, con un elevato grado di istruzione, una discreta famigliarità nelle tecnologie del Web 2.0 e dei social network e quindi una consapevolezza delle implicazioni di entrarne a far parte.
Ebbene, una delle conclusioni più importanti ha evidenziato come la considerazione che l'informazione fornita possa successivamente diventare disponibile ad altri individui, oltre a quelli a cui inizialmente si intendeva comunicarla, può rimanere "latente", poiché la cognizione dell'ulteriore accesso appare distante.
Non ci sarebbe quindi la preoccupazione della relativa mancanza di controllo sugli accessi futuri e sull'utilizzo dei dati: tale preoccupazione viene accantonata a causa della percezione di soddisfazione sul controllo dell'effettiva azione di rivelare e pubblicare l'informazione.
La ricerca è partita dall'ipotesi che uno dei meccanismi psicologici che portano le persone a esporsi a un vasto pubblico sia un paradosso del controllo sull'informazione che rivelano: dal momento che abbiamo il controllo sulla pubblicazione di nostre informazioni private, tendiamo a dare meno importanza al controllo (o alla mancanza di esso) sull'accessibilità e sull'uso di tali informazioni da parte di altri.
Una volta formulati tre esperimenti a base di sondaggi, sono stati sottoposti a un campione di studenti: ciascun esperimento presentava una variazione della percezione del soggetto sul controllo sulla pubblicazione di informazioni, senza però alterare le condizioni di accesso e utilizzo dell'informazione che si chiedeva di divulgare.
In due esperimenti è stata diminuita la percezione dei soggetti sul controllo effettivo, mentre in uno è stata aumentata.
E' stata quindi misurata la propensione a rivelare informazioni sensibili come funzione della quantità di controllo che veniva percepita.
I risultati hanno quindi mostrato che:
- un maggior controllo sulla pubblicazione di informazioni private rende meno importante il controllo sul successivo utilizzo da parte di altri, diminuisce l'interesse verso la privacy e aumenta la propensione a pubblicare informazioni sensibili;
- un minor controllo sulla pubblicazione di informazioni private porta a un aumento di preoccupazione verso la privacy e una conseguente minor volontà di pubblicare informazioni sensibili.
Non c'é alcun dubbio che conferire a un individuo il controllo su come le sue informazioni personali siano divulgate e utilizzate sia un'importante condizione per la protezione della privacy. La ricerca mostra però che questo tipo di controllo non garantisce ai soggetti di raggiungere un bilanciamento tra la rivelazione delle informazioni e la loro protezione, ma, anzi, è il maggior controllo sulla pubblicazione che induce a rivelare una maggior quantità di informazioni personali.
Gli esperimenti condotti hanno permesso di inferire che, all'interno della decisione di divulgare un'informazione personale, viene assegnato un maggior peso al controllo sulla pubblicazione: anche qualora le persone siano coscienti delle minacce alla privacy derivate da chi accede alle loro informazioni e a come le utilizza, sono meno propensi a realizzare che è il controllo sull'accesso e l'uso dell'informazione che é davvero importante per la protezione della privacy.
Quando il responsabile della pubblicazione era costituito da un entità terza i soggetti erano più propensi a astenersi da divulgare informazioni. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che, dal momento che la pubblicazione di informazioni personali è un evento certo e immediato, è anche più evidente in questo caso il rischio che qualcuno acceda e usi tali informazioni in un tempo piuttosto vicino.
La maggior protezione sulla pubblicazione delle proprie informazioni, che negli ultimi tempi sta diventando consuetudine nei social network del Web 2.0, ha il rovescio della medaglia di abbassare il grado di preoccupazione sul successivo utilizzo di tali dati: la pubblicazione costituisce per l’utente una soddisfazione immediata, che ha un maggior peso di una preoccupazione latente e lontana nel tempo.
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